SAPER RIDERE SAPER PIANGERE

di Francesca Corbella

Una cosa che mi ha sempre destato un certo interesse è l’atto del ridere e del piangere.

Mi sembra di poter dire che non ne siamo più molto capaci.

In merito al ridere il nostro comportamento sociale impone di ridere se siamo divertiti da qualche evento improvviso o estemporaneo (barzelletta) quanto al piangere é ammesso solo se siamo “autorizzati” da un evento funesto o una notizia riconosciuta per essere angosciante o foriera di disgrazia. In genere serbiamo un certo pudore nel manifestare apertamente riso e pianto. Che guarda caso sono espressioni tipiche del bambino.

Il bambino piange di continuo, il suo pianto preoccupa tanto i genitori perché ritengono – cosa che è degli adulti – che lui stia soffrendo. Di base, cioè, ascriviamo il pianto ad una difficoltà del bambino legata ai bisogni primari insoddisfatti del corpo o alla sfera emotiva come la ricerca di rassicurazione e carezze. E’ raro però percentualmente – per fortuna – il bambino che sperimenti fortemente la paura, il dolore, l’abbandono, il disorientamento o un’estrema fatica del vivere, eppure i bambini piangono continuamente.

Il pianto del bambino in realtà è un sistema estremamente funzionale con cui la natura ha dotato un essere totalmente dipendente dagli adulti, in modo che essi si accorgano di lui, di suoi bisogni elementari, come essere nutrito, pulito, ascoltato.

Quando il bambino constata la propria incapacità di autonomia (per esempio nel movimento o nella mancanza di linguaggio) prova frustrazione e piange. Non è una sofferenza da intendersi in senso esistenziale o psicologico, è semplicemente un segnale, un allarme, lanciato a chi si deve occupare di lui. E’ un modo di comunicare, a cui loro hanno libero accesso, accettato a tutti: il pianto del bambino ha pieno diritto di cittadinanza emotiva!

La risata: il bambino ride tantissimo, ad ogni momento, quando non piange lui ride. Sono i due modi speculari di comunicare con i pari o con gli adulti o anche solo di interagire col mondo esterno, il bambino ride da solo, mentre gioca, o ride in risposta a stimoli che arrivano dagli adulti. Quando la mamma si sporge sulla carrozzina, o gli tocca un piedino, il bambino ride di gusto. Non è che ciò lo diverta come una “barzelletta” semplicemente il mondo gli suscita stupore e meraviglia. E’ una forma di apertura, di coinvolgimento, di accoglienza senza riserve, una reazione positiva alla vita che si genera intorno a lui.

Tornando a noi grandi, perché non siamo più capaci di ridere così genuinamente o di piangere senza implicazioni psicologiche ma di piangere per piangere fine a sé stesso, come il bambino?

Ad alcune persone, capita di commuoversi guardando negli occhi delle persone, o davanti ad un paesaggio particolarmente bello. Di solito etichettiamo queste reazioni come di “persona romantica o emotiva” e ne abbiamo quasi una certa pena come un handicap. Se uno si commuove davanti a un film anche questo viene arginato come tipico di un animo sentimentale facile alla lacrimuccia, o peggio, viene dileggiato come atteggiamento da femminuccia.

Ma anche il ridere è classificato da stolti. Uno che ride da solo in metro è un pazzo da cui stare alla larga, uno che si lascia andare a crasse risate non è “fine”, viene preso come un eccesso, un’eccentricità.

Per quanto ci sia stata una grande revisione di questi rigori moralistici passatisti, non siamo totalmente liberi di esprimere i(n pubblico, ma anche in privato con noi stessi) il pianto e il riso, ce ne vergogniamo. Qualcosa ci trattiene, la gola ci si chiude, la mandibola si contrae, la voce ci si rompe. Al cinema non vogliamo farci scoprire, alziamo lo sguardo per far rientrare la lacrima e dissimulare la commozione tossicchiando.

E’ il peso del giudizio che ci imbarazza: ma questo giudizio che applichiamo a noi stessi e agli altri, genera una gabbia. Se ce ne rendiamo conto, realizziamo anche, andando più in profondità, che una parte di noi è stata contenta di piangere, infatti quando il pianto è sincero è liberatorio, proprio come una risata. I due si assomigliano. Quando le emozioni sono troppo forti si passa dal pianto al riso, infatti entrambi muovono gli stessi muscoli, scaturiscono dalle stesse corde. Non a caso esiste l’espressione “piangere dal ridere”.

Se osserviamo queste attività vediamo che il corpo le registra come qualcosa di correlato alla rinascita. Il corpo genera un’energia ristoratrice, qualcosa di intrattenibile e alla fine del pianto o del riso o di entrambi alternativamente, si avverte come il rilascio di una calma interiore, siamo pervasi di rinnovata serenità e chiarezza di idee .

Però dobbiamo sempre vedercela con il nostro genitore critico, un vero gendarme, che è sempre lì pronto a dirci:  Hai pianto, sei stato un debole, sei come un bambino che non si controlla, esprimere questa vulnerabilità non va bene“. Noi reprimiamo le emozioni. E questo fa malissimo!

Dobbiamo imparare dal maestro bambino: iniziare a connotare il pianto come fattore positivo e il riso non come uno stato emozionale sconveniente che ci espone al giudizio di superficialità o stupidità o gigioneria.

Fin da quando siamo bambini impariamo a reprimere gli stati emotivi che a livello educativo e sociale sono considerati poco consoni alla adultità con cui ci dobbiamo presentare in società. Questo ha ripercussioni anche a livello fisico: se non possiamo sentire la rabbia, la paura, la tristezza, e le dobbiamo reprimere, abbiamo una tensione molto forte nel corpo. Ma poiché non si può imprigionare l’emozione, se non impariamo a canalizzarla ne risulta un’oppressione che nuoce al nostro sonno, alle nostre relazioni, al nostro bioritmo biologico e psicofisico.

Spesso quello che accade è che non si riconosca l’emozione che ci attraversa e che abbiamo bloccato. In realtà avrebbe potuto esprimersi con un gesto, con uno sguardo, un tono di voce, una presa di posizione, un accogliere noi stessi con amore. Non è necessario ridere sgangheratamente o stracciarsi le vesti piangendo di disperazione, è sufficiente accogliere questo pianto o riso lievemente e lasciarli scorrere, lasciarli salire agli occhi e al cuore e poi fluire fuori.

Invece generiamo una contrazione nel corpo, opposta all’azione spontanea che genera invece rilassamento e morbidezza.

Piangere in modo naturale significa accettare la realtà del presente e del passato. Saper piangere cambia il nostro mondo interiore. È un Sì verso noi stessi liberandoci dalla tensione e dal dolore. Non ci serve per attirare l’attenzione o l’amore dall’esterno. Quando piangiamo spesso arriva pronta la consolazione dagli altri: questo è un altro degli errori che si commettono relativamente al piangere, che è una questione tra noi e noi, infatti vogliamo rimanere soli, “guardarci” il nostro piangere, perché sappiamo che ci permette di tornare alla leggerezza, maggiormente integri, e provare amore per noi stessi.

Siamo tra i pochi animali su questo pianeta a poterlo fare. È una nostra peculiarità.

Tornando alla connessione tra le risate e le lacrime: di solito si pensa che risate e lacrime siano ai poli opposti, le lacrime sono per la miseria dell’animo e le risate sono per la felicità. Ma è perché conosciamo soltanto una qualità di riso e lacrime. Invece le lacrime illuminano l’oscurità, e lasciano uno spazio più silenzioso dentro dove è possibile pensare e sentire in modo più acuto e produttivo. Lavano via la tristezza, la fanno traboccare, quindi operano una trasformazione positiva. La risata è la cosa più bella che abbiamo, ci sono diverse qualità di riso, se capiamo che è lo straripare del nostro essere e non solo il frutto dell’allegrezza momentanea, è una vera celebrazione che ci pone in una lettura della vita positiva, che va ben oltre l’episodio che può averci fatto ridere.

Lacrime e riso a volte sgorgano da una grande gioia, a volte da una grande pace, e a volte dall’estasi e dall’amore, entrambe permettono di vedere: gli occhi lucidi di riso o di lacrime accompagnano la preghiera, sono capaci di vedere la verità, sono una benedizione perché ci immergono nell’autenticità dell’essere un essere umano.

Sta a noi rivedere le convinzioni culturali al riguardo, rinnovare il nostro sguardo e prenderci, anche noi, come i bambini, il pieno diritto al ridere e al piangere!